31 marzo 2009

Un sabato al Lambrate

Ero a Milano per soli due giorni, ovviamente ha diluviato tutto il fine settimana e così sabato sera, convinti un pò di amici, ci siamo rifugiati al Lambrate. Nascosto in una piccola via accanto all'omonima stazione, il primo microbirrificio di Milano ha aperto i battenti nel lontano 1996 con una produzione di 150 litri al giorno che oggi sono diventati 2000 per ogni cotta e dalle tre storiche birre iniziali oggi si è passati a 13. In questi anni l’idea di Davide e Giampaolo Sangiorgi e Fabio Brocca di aprire un brewpub che servisse la loro birra, è stata premiata con continui successi e riconoscimenti, oltre che un’affluenza continua ed enorme, tanto che oggi il Lambrate è considerato tra i migliori microbirrifici in Italia e alla fine del 2008, dopo un ingrandimento dell’impianto di produzione, si è unito alla causa anche il grande Maurizio Cancelli.
Dentro non cadeva uno spillo, anche perché giocava la nazionale, la fila era enorme e Giampaolo, dietro al bancone, spillando birre a velocità da guinness, riusciva anche a rispondere a tutti: un fuoriclasse. Solo a vedere la schiuma della Montestella la sete era a mille e noi dovevamo, o meglio avremmo voluto, anche mangiare qualcosa. Dalla bolgia si sarebbe detto –Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate-, ma la mia ragazza, molto più convincente di me (ovvio), anche facendo presente che avevamo fatto 500 Km per provare le loro birre, si guadagna strenuamente un tavolone. A questo punto prosit. Infornata generale di Montestella (prima classificata al premio Birra dell’anno 2008 nella categoria birre ad alta fermentazione con meno di 12 plato), una kölsch che all’aspetto ha veramente pochissimi rivali, ma io non resisto al richiamo anglosassone e mi butto sulla nuova Ortiga, una splendida golden ale dall’intenso profumo di luppolo, erbacea al naso e amara in bocca, leggermente agrumata: grande birra. Con la carne non ho dubbi e le rauchbier sono tra le mie preferite. La Ghisa si presenta alla grande, scurissima con una schiuma compatta, abbondante e color cappuccino. Al naso rivela la sua forza e si sentono l’affumicato e gli aromi tostati, ma va giù benissimo, con grande equilibrio, con un’affumicatura che in bocca si sente anche meno di quello che credevo. Last but not least, una Porpora di chiusura (prima classificata al premio Birra dell’anno 2008 nella categoria birre a bassa fermentazione con più di 14 plato) e qui chapeau. Dal colore si capisce il nome e si presenta con un fantastico cappello di schiuma, ma è al naso che mi ha sorpreso, con un intenso fruttato, quasi agrumato e un erbaceo distinto che non mi aspettavo. In bocca il dolce del caramello si sente ma è perfettamente equilibrato da un luppolo non invadente: questa Porpora è una birra fantastica. Alla fine mi avvicino a Giampaolo per chiedere qualche bottiglia ma ahimè, con l’impianto sotto lavori, nada. Capisce subito di dove sono e allora aggiunge –Sai dove trovi le spine del Lambrate però?-, e io sorpreso penso a chi le potrebbe avere, -Da Manuele!- dice ridendo. Il Colonna è vero, il passepartout romano per ogni buona bevuta.
Mi è piaciuto proprio questo Lambrate, devo organizzare presto un altro raid meneghino.


17 marzo 2009

San Patrizio: storia e stout

Il 17 marzo non è un giorno qualunque nel mondo della birra: è il giorno di San Patrizio, patrono delle verdi terre d'Irlanda. Nato da una nobile famiglia romana in Scozia (a Kilpatrick) nel 387, con il nome di Maewyin Succat, s'imporrà più tardi il nome latino di Patrizio. Rapito quando aveva sedici anni da pirati irlandesi, fu venduto come schiavo al re del North Dàl Riada, nell'odierna Irlanda del Nord. Per sei anni lavorò come pastore nella contea Antrim, dove apprese la lingua gaelica e le pratiche dei druidi. Un giorno dopo 6 anni di cattività e due tentativi falliti, ribellandosi al proprio padrone, Patrizio riuscì a scappare e percorrendo a piedi 184 miglia, si imbarcò clandestinamente su di una nave diretta in Inghilterra. E come suo padre e suo nonno prima di lui, si avvicinò alla Chiesa e così, recatosi in Francia, fu consacrato Vescovo da Germano d'Auxerre. Nel 432 Papa Celestino I gli affidò la missione d' estirpare dall'Irlanda il paganesimo e convertire l'intera nazione alla cultura cattolica. Fu spesso minacciato di morte, catturato e condannato, ma riuscì comunque a portare avanti la sua missione con sorprendente successo. Il santo percorse l'intera Irlanda, predicando e insegnando nella lingua locale, fondando abbazie e monasteri, soccorrendo i bisognosi e operando miracoli: nacque così la corrente separata del Cristianesimo celtico. Infatti, per conservare le radici e le tradizioni storiche del popolo irlandese, nonché per un suo attaccamento alla religione celtica, Patrizio favorì la combinazione di molti elementi cristiani e pagani. Per esempio introdusse il simbolo del sole sulla croce latina, facendo diventare la croce celtica simbolo del Cristianesimo di quelle zone. La sua storia è legata anche al simbolo dell'isola, il verde shamrock of Ireland: grazie ad un trifoglio infatti, si racconta che San Patrizio abbia spiegato ai pagani irlandesi il concetto cristiano della trinità, sfogliando le tre piccole foglie unite in un unico stelo. Sulla data e il luogo sua morte non si hanno certezze storiche, ma avvenne circa nel 461. Il suo corpo, conteso da varie città, fu affidato a una coppia di buoi che, senza guida, lo depose a Down nell'Irlanda del Nord, che da allora cambiò il nome in Downpatrick e dove un'immensa statua del Santo veglia sulla sua Irlanda. In tutto il mondo il giorno di San Patrizio diventa un'occasione per allegre bevute delle grandi scure irlandesi e quindi oggi parliamo di Stout, per precisione delle dry stout irlandesi (in gaelico leann dubh). Nere e impenetrabili, dal gusto secco e asciutto, con bassa carbonazione, hanno una schiuma cremosa e molto persistente. Le classiche forti note di caffè e liquirizia sono dovute all'ultilizzo di orzo e malti tostati, a cui si deve anche il colore scuro e anche l'amaro spiccato, più che al luppolo, si deve all'uso dei grani torrefatti. Molto caratteristica dello stile è una certa cremosità e morbidezza al palato. Inutile dire che è la St. James's Gate Brewery fondata nel 1759 da Arthur Guinness a Dublino, la più nota e importante fabbrica di stout al mondo. La Guinness non conosce crisi, basti pensare all'impressionante crescita del 7% delle vendite registrate nella sola seconda metà del 2008. Quest'anno peraltro si celebrano i due secoli e mezzo di vita della Guinness che festeggerà San Patrizio e l'anniversario con la vendita solo oggi, è stato calcolato, di circa 13 milioni di pinte della sua celeberrima stout. Un paio di queste sono le vostre?

2 marzo 2009

Birre e uva

Cinque secoli fa Martin Lutero già affermava che «Vinum est donatio dei, cervetia traditio umana». Siamo proprio alla base della millenaria tradizione gastronomica europea, due prodotti che per secoli e secoli hanno segnato e continueranno a segnare la storia della produzione artigianale di questo continente e di questa Italia. Questa non è questione di buon bere ma è cultura, la più vera, perché radicata nel sapere popolare e nella tradizione agricola, tramandata e spero, mai dimenticata. Chissà se sarebbe stato possibile immaginare che l’incredibile fantasia dei birrai un giorno, sarebbe quasi arrivata a far convivere il vino e la birra. Anche chi è spinto dalla passione per quest’ultima, non può, non qui in Italia, prescindere dalla tradizione unica e millenaria che ci lega indissolubilmente al primo. E così l’estro dei nostri birrai, il radicamento al proprio territorio, la tradizione enologica regionale hanno fatto il resto e sono nate alcune birre uniche in cui è utilizzata anche l’uva. Nicola Perra, in Sardegna, per la sua BB10 ha utilizzato le più famose uve della sua isola, quelle Cannonau; per precisione ha utilizzato un prodotto tipico con una storia millenaria ovvero la sapa di Cannonau. Nota già ai Romani la sapa altro non è altro che mosto d'uva non fermentato e cotto lentamente per ore, fino a ridurre di un terzo il volume iniziale. Il mosto cotto che ne deriva è quindi estremamente zuccherino e da sempre utilizzato sia da solo come bevanda (il celebre vincotto) sia per la confezione di numerosissimi prodotti tradizionali. Dall’utilizzo del mosto cotto di queste uve nere nasce questa apprezzata birra scura e dalla gradazione alcolica sostenuta (10% appunto). Jurij Ferri a Spoltore, sempre con mosto cotto ma questa volta ottenuto dalle pregiate uve Montepulciano, produce invece la sua fantastica birra di Natale, la Grand Cru Santa Claus, speziata con zenzero, pepe, cannella e noce moscata. Una birra d’estrema eleganza, versione natalizia della già straordinaria Grand Cru, a cui viene appunto aggiunto anche il mosto ottenuto in caldaie di rame riducendo per ore il volume iniziale del vino. Ultima creazione di Riccardo Franzosi è invece la Tibir, prodotta utilizzando acini d'uva bianca Timorasso dei colli tortonesi e poi maturata in legno. Ne deriva una birra dal colore dorato con una gradazione intorno ai 7,5% dagli straordinari profumi di frutta bianca e quella classica secchezza e leggera nota acidula derivante dalla tannicità delle uve utilizzate. Nella linea sperimentale delle produzioni brassicole, birre del genere, per quanto estremamente innovative, sembrano quasi porsi in controtendenza, perché aprendo nuovi spazi comunque ritracciano i confini della tradizione e non ricercano una sperimentazione fine a sé stessa. Riportando la conclusione d'un articolo del grande Kuaska «Noi italiani abbiamo una marcia in più, ci viene dall’innata fantasia che sa sfociare in creatività e soprattutto in originalità». E appunto grazie alla maestria dei nostri birrai le tre birre sono di un livello qualitativo assoluto, ma non poteva essere altrimenti..